Oggi sono tutti d’accordo: nel 2012 ci sarà una seria recessione. Quanto “seria” lo ha quantificato il Centro studi Confindustria (Csc) che per il 2012 ha previsto un calo del Pil pari all’1,6 per cento. La stima del Csc è più pessimista (ma anche più recente) di quelle del Fondo monetario, della Commissione Europea e del governo. C’è poi chi (ad esempio, Sergio De Nardis) si basa sull’esperienza passata e sui calcoli del Fmi, concludendo che la previsione Csc è ancora ottimistica e che il vero calo del Pil 2012 per l’Italia potrebbe arrivare a 3 punti percentuali.In realtà già un meno 1,5 per cento di crescita per il 2012 sarebbe un brutto colpo per la tenuta dei conti pubblici dell’Italia così faticosamente “messi in sicurezza” con le manovre dei governi Berlusconi e Monti. Con un Pil a meno 1,5, le entrate fiscali sarebbero minori del previsto e ci vorrebbe più spesa pubblica per assistere i nuovi disoccupati e cassintegrati. E il deficit 2012 non sarebbe più pari a 20 miliardi, l’1,2 per cento del Pil previsto dal governo, ma un numero più grande. Una regola calcolata per il passato dice che il deficit aumenta di circa mezzo punto di Pil per ogni punto di Pil perso. Dunque un calo di un punto e mezzo del Pil – un punto percentuale inferiore alle previsioni incorporate nella manovra – obbligherebbe Mario Monti a trovare altri 7,5 miliardi di euro per far quadrare i conti.
Insomma, se nel 2012 arriverà davvero una forte recessione, Monti dovrà fare un’altra manovra o contrattare una dilazione nei termini dell’aggiustamento fiscale con l’Europa e, in modo più cruciale, con i mercati. Capire se e in che misura l’attuale pessimismo sia giustificato o se esistano margini per essere meno pessimisti è quindi molto importante. In effetti, a mio avviso, l’ottimismo – il minor pessimismo – può avvalersi di tre argomenti principali.
Una prima cosa da considerare è che le previsioni economiche non peccano sempre di eccessivo ottimismo, anzi. Gli esempi di “al lupo, al lupo” abbondano. Prima dell’estate 2011 la quasi totalità dei commentatori aveva dato per morta e sepolta la ripresa Usa, schiacciata dai debiti privati, da un mercato immobiliare fermo, dalla disoccupazione cocciutamente alta. Invece, se guardiamo ai dati 2011, vediamo che, dopo il quasi stop del primo trimestre 2011, l’economia americana ha fatto registrare crescite trimestrali dello 0,3 e dello 0,5 per cento nel secondo e terzo trimestre 2011. E la crescita 2011 è venuta dopo una crescita del 3 per cento nel 2010 rispetto al 2009. La capacità di reazione dell’America dopo la crisi ha dunque finora sorpreso i pessimisti. Lo stesso può dirsi anche dell’economia cinese, data sempre in rallentamento negli ultimi dodici mesi, ma che continua a esibire una crescita non lontana dal 9 per cento. E anche per l’Italia non sempre le previsioni sono azzeccate: nei trimestri successivi all’inizio della ripresina 2009-2010 il cosiddetto superindice dell’Ocse aveva previsto un’economia italiana in recessione già nel terzo trimestre 2010. Certo, la crescita italiana ha continuato a essere modesta e pericolosamente vicina allo zero, ma la recessione – fino al secondo trimestre 2011 incluso – non si è vista. Anche di fronte al pessimismo unanime di oggi vale dunque la pena di porsi qualche domanda in più su come sarà davvero il 2012.
Ci sono poi altri due motivi più sostanziali di ottimismo (o minor pessimismo). Primo, la manovra Monti, per quanto ingiusta, recessiva e fatta di tasse al 92,5 per cento (per 18,5 miliardi su 20), interviene su una situazione già molto deteriorata. Durante l’estate 2011 c’è stato un drastico peggioramento della fiducia delle famiglie e delle imprese bombardate quotidianamente di cattive notizie, dall’Europa e dall’Italia. Il peggioramento di fiducia ha prodotto tangibili conseguenze negative sui dati congiunturali già nella seconda metà del 2011. I consumi delle famiglie e il Pil sono diminuiti dello 0,2 per cento nel terzo trimestre 2011, mentre il calo trimestrale della spesa pubblica e degli investimenti ha superato il mezzo punto percentuale. Non per caso l’indice della produzione industriale è tornato a valere 86,5 nell’ottobre 2011, cioè tre punti in meno rispetto al suo valore di ottobre 2010 e solo un punto in più del suo valore eccezionalmente basso dell’ottobre 2009. Lo stesso vale per fatturato e ordinativi: gli ordini dell’industria di ottobre 2011 valgono quattro punti meno che nello stesso periodo del 2010 e l’aumento di un punto del fatturato (a prezzi correnti) è poca cosa rispetto al ben più consistente aumento di costi subito dal settore nel corso del 2011. È naturale mettere in connessione il brusco peggioramento della congiuntura economica italiana nel secondo semestre 2011 alle cattive notizie europee e italiane che si sono succedute durante l’estate. Questo vuol dire che, molto prima della manovra Monti, sono state le cattive notizie sul futuro dell’Unione e le esitazioni estive del governo Berlusconi ad aver causato la recessione. Invece, come spiegava già molti anni fa l’attuale capo economista del Fondo Monetario Olivier Blanchard, l’approvazione di una manovra dura e piena di tasse quanto si vuole, ma che riesca ad allontanare lo spettro dal fallimento dall’economia italiana, se efficace nel contenimento del deficit, potrebbe portare a un assestamento delle aspettative per il futuro. Subite le bastonate di fine 2011 e inizio 2012 sulle tredicesime, sulla casa e sugli scaffali dei supermercati, le famiglie potrebbero ricominciare a consumare e le imprese a investire già nel corso del 2012.
Un’altra ragione addotta dai pessimisti è che l’Italia si troverebbe nel 2012 ad adottare politiche di bilancio restrittive senza potersi avvalere della svalutazione come strumento per riguadagnare competitività. È vero: in passato la stretta fiscale di Amato fu addolcita dalla svalutazione del 20 per cento della lira, che oggi non c’è più. Ma non è vero che l’Italia non possa più avvalersi del deprezzamento del cambio. In realtà, lo sta già facendo. Proprio grazie alla crisi dei debiti sovrani, il cambio dell’euro nei confronti del dollaro, nonostante la politica monetaria super-espansiva della Fed, si è già svalutato del 10 per cento negli ultimi sei mesi. Un euro basso non aiuta le imprese italiane a esportare di più nell’area euro, ma le aiuta eccome a penetrare i mercati fuori dall’area euro, a cominciare da Svizzera, Stati Uniti, Russia e gli altri paesi emergenti, che in totale ormai rappresentano il 55 per cento circa dell’export totale dell’Italia. E c’è ragione di pensare che nel 2012 il guadagno di competitività continui. Progressi rapidi nei tentativi di rabberciare le istituzioni dell’Europa non sono in vista. Ma se anche a marzo 2012 si arrivasse a un nuovo grande accordo pan-europeo, non sarà attuato tanto in fretta. Nel frattempo, l’euro dunque continuerà a indebolirsi gradualmente. Non fino al collasso, però: i tedeschi hanno troppo da guadagnare dall’esistenza dell’euro, come testimonia il basso livello dei tassi che pagano sul loro debito pubblico, l’entità dei loro avanzi di bilancia commerciale verso l’Europa e verso il resto del mondo e la composizione degli attivi delle loro banche straboccanti di attività denominate in euro. Alla signora Merkel conviene continuare a sostenere lenti, ma continui progressi verso l’attuazione delle riforme discusse negli ultimi mesi. Se sarà così, anche nel 2012, come già nel 1993, la stretta fiscale sarà addolcita dalla svalutazione – dell’euro anziché della lira.
Nell’insieme, è legittimo aspettarsi un quadro grigio per i primi mesi del 2012, ma questo vale, come già nel 2010 e nel 2011, più per il mercato interno che per quello estero. Se l’aggiustamento fiscale sarà efficace e sarà accompagnato da misure più incisive volte a conseguire una svalutazione fiscale che complementi quella del cambio deprezzato, già nel secondo semestre 2012, invece della Grande Depressione, potrebbero arrivaresorprese positive da consumi e investimenti.
VIA ilfattoquotidiano.it